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Panorama

Francesco Jodice

Panorama

a cura di Francesco Zanot

Camera – Centro Italiano per la fotografia

Torino 11 maggio – 14 agosto 2016

Panorama è la prima grande rassegna dedicata all’opera di Francesco Jodice. Artista tra i più interessanti sulla scena internazionale, Jodice, più di molti altri, rappresenta la nuova figura di artista in cui le pratiche dell’indagine sociale si intersecano con quelle dell’arte, non limitandosi all’esito antropologico ma fondendosi con il fare artistico per dar vita ad una specificità sia di contenuto che estetica. Se si pone il discorso nei termini di alta qualità e di equilibrio espressivo diventa superata la distinzione di merito tra pratiche usate. Soprattutto tra arte (visiva) e fotografia. Tra fotografo e artista. Distinzione che tuttavia sopravvive anche se nell’era della globalizzazione e della rete risulta anacronistica. Di questa posizione Francesco Jodice ne è stato anticipatore. Basti ricordare, la partecipazione con il collettivo di ricerca territoriale Multiplicity a Documenta 11 ( due soli artisti italiani invitati) con un video su un tema allora non ancora compreso nella sua  dimensione globale, quello delle migrazioni (Solid Sea, 2002, ora riproposto in mostra in un nuovo allestimento).Da allora, in vent’anni, Jodice ha realizzato una produzione che spazia, per quanto riguarda i mezzi espressivi, dalla fotografia al video, all’installazione e, per quanto riguarda i contenuti, verrebbe da dire, dall’antropologia alla poetica visiva. Ma più ancora – e qui sta il dato saliente – innescava un unico processo creativo utilizzando i diversi mezzi espressivi (foto, cinema, video, installazione) e, da un punto di vista teorico, apriva il campo alle pratiche di indagine e relazionali. L’esito è un’opera che, nel momento in cui si palesa e coinvolge il pubblico nel processo di documentazione e di indagine, ha la capacità di elevarsi a prodotto artistico.

Tutto ciò viene sottolineato dal percorso della mostra che il curatore Francesco Zanot, con una scelta basilare, ha incentrato su sei luoghi-installazioni, emblematici della produzione di Jodice dagli esordi a oggi. Una lunga struttura modulare di oltre 40 metri, posta nel corridoio, collega le varie sale espositive e al contempo permette, grazie ai materiali esposti (libri, foto, progetti, materiali di backstage, ecc.) di conoscere gli spunti, le motivazioni e le riflessioni che hanno dato vita alle pratiche da cui ogni opera prende avvio. Non si tratta di un procedere lineare ma volutamente di “rete”, dove l’opera come esito finale svela nuove relazioni, invita a scoprire nuovi sistemi e nuovi mondi. Si instaura così una logica espositiva combinatoria dove il visitatore crea un suo percorso, dove la fotografia scolastica di fine anno (Ritratti di classe,2005-2009) svela trasformazioni sociali e culturali per poi rimandarci a scenari globali e geopolitici. Le 150 metropoli di What We Want, 1995-2016, vanno a formare un atlante fotografico, iniziato nel 1996. Un atlante composto da paesaggi urbani che mutano assumendo le caratteristiche della comunità che li vive. Paesaggi sempre più globalizzati che non possono essere interpretati tramite un unico punto di vista così come non possono essere resi con un metodo tradizionale. Lo sguardo dell’artista diviene relazionale nella considerazione dell’altro, utilizzando un approccio multidisciplinare che spazia dalla topografia, alla fotografia umanistica, all’arte concettuale, al montaggio e alla scrittura. Lavoro in progress sui mutamenti di paesaggi urbani nello stesso tempo si dichiara, già nella sua sostanza, come progetto senza un termine nel mutare continuo del paesaggio e del tessuto sociale. Allo stesso modo le immagini che ritraggono cittadini pedinati di nascosto nel progetto The Secret Traces (1997-2007) ci fanno percepire il loro essere parte di un contesto urbano dalle specifiche caratteristiche ma ancor più svelano la precarietà di un’identità giocata quotidianamente in un ambiente urbano e sociale sempre più fluidificante, mutante, non più metropoli moderna ma non ancora centro futuribile tra reale e virtuale. Nel fissare i loro percorsi, Jodice compie un’azione di svelamento, delle persone e dei luoghi ma soprattutto ci apre un’inquietante riflessione sulla condizione umana. Riflessione che viene ripresa, passando dall’individuale al collettivo, con The Room (2009-2016), installazione costituita da una stanza le cui pareti sono coperte da pagine di quotidiani cancellate da uno strato di vernice nera. Nell’ambiente buio sono leggibili solo poche parole. L’artista, con una modalità tanto elementare quanto efficace, oscura il flusso invasivo della comunicazione quotidiana che ci avvolge e, lasciando pochi spazi di comunicazione, innesca un dispositivo tramite il quale dalla moltitudine dei messaggi ormai senza senso si evoca la forza del significato. Ma è in Citytellers (2006-2010), film dedicati a tre casi emblematici di aberrazioni geopolitici globali che l’artista raggiunge una compiutezza in cui la ricerca antropologico/documentaristica si sublima in opera d’arte visiva. In São Paulo la narrazione indaga sulle forme di autogestione nella megalopoli brasiliana. In Aral, il lago distrutto dall’umana stupidità diviene emblema del suicidio ecologico in atto. Dubai, vera e propria cattedrale nel deserto del lusso e della ricchezza sorta su uno sfruttamento che ricorda la schiavitù, ci invita a riflettere sulle dinamiche della globalizzazione tra falsi miti e dignità umana. Ma tutti i film, a ben vedere, traggono forza e ci affascinano per la capacità dell’artista di passare dal piano documentaristico a quello artistico senza perdere gli elementi costitutivi e specifici. In tutti compare, con accenti a volte più marcati, quel momento di “brillatura” – mutuando la definizione da Slavoj Žižek – in cui si ha uno scollamento tra realtà e finzione. Il passaggio avviene con minime variazioni come quando la narrazione filmica indugia su un frame fisso facendolo divenire emblematico. “La brillatura” lo esalta favorendo il passaggio dal discorso antropologico a quello della potenzialità artistica.

Massimo Melotti

Trent’anni d’Arte sotto la Mole

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Il Giornale dell’Arte, edizione online, 16 settembre 2013

Dal 1982 al 2012 la Fondazione de Fornaris ha acquistato oltre 650 opere per la Galleria d’Arte moderna di Torino

Fra le istituzioni dedicate all’arte un posto particolare spetta alla Fondazione De Fornaris di Torino che spicca per le equilibrate scelte artistiche tra Settecento e arte contemporanea non disgiunte da un’accurata gestione del patrimonio, particolarità non consueta nel panorama dell’arte in Italia.
Da ben trent’anni infatti la fondazione, nata dalla munificenza di Ettore De Fornaris, avvocato e appassionato d’arte, e oggi guidata da Piergiorgio Re, non solo ha realizzato la propria «mission» con l’acquisizione di ben oltre 650 opere per la collezione permanente della Gam di Torino, divenendo uno dei motori di sviluppo del museo torinese, ma ha svolto e svolge un ruolo di primo piano nella politica culturale della città. Con un understatement tipicamente torinese, grazie a una accurata gestione del proprio patrimonio che vive (Udite! Udite!), senza contributi pubblici peraltro mai richiesti, la fondazione sostiene un’articolata attività culturale ed è intervenuta, nell’ultima decade, nell’arte pubblica con la realizzazione di grandi installazioni come quella di Tony Cragg e di Giuseppe Penone.
Il volume, pubblicato per i tipi de L’Artistica Editrice, in occasione del trentennale, curato daMarina Paglieri con l’apporto scientifico di Riccardo Passoni ed editoriale di Sara d’Alessandro, traccia la storia della Fondazione suddivisa per decenni. La pubblicazione si avvale di un accurato apparato scientifico con le schede delle opere acquisite e di una vasta documentazione iconografica, E se Passoni individua e analizza i grandi temi di intervento: dalla acquisizioni di nuclei di opere all’attenzione al territorio non disgiunta dall’acquisizione di capolavori del Novecento, dalla grafica ed infine ai grandi interventi di arte pubblica, Marina Paglieri narra la storia di quella che da istituzione fortemente territoriale si è sviluppata sino a ampliare i propri orizzonti al panorama internazionale coronati da una serie di iniziative a New York in occasione del trentennio. Si permette così al lettore un approfondimento nelle tendenze dell’arte e nella storia del gusto collezionistico. Già nel primo decennio si ha l’impronta che guiderà le scelte delle commissioni per le acquisizioni. Attenzione per i nuclei di opere, cercare di salvaguardare dalla dispersione opere particolarmente significative, l’intento di colmare le lacune nella collezione della Gam al fine, come era nella volontà del fondatore, di contribuire all’«educazione artistica della collettività». La grande pittura italiana quindi con, tra le altre, un nucleo di opere diMorandi, degli stupendi Burri ma anche i maestri dell’Arte povera per citarne alcune. Nel secondo decennio le collezioni vengono ulteriormente incrementate e ritrovano la loro sede nella riapertura del museo torinese dopo dodici anni di lavori con nuovi spazi espositivi. Il pubblico ha la possibilità di ammirare il corpus della grafica con 500 opere su carta mentre si dà avvio a un ciclo di incontri dedicati alla cultura cittadina che preannunciano la serie divenuta istituzionale dei «Lunedì dell’arte» degli anni successivi. Pur continuando l’attenzione per i grandi maestri dell’Ottocento, tra cui l’acquisizione di una delicata opera di Morbelli presentata nella successiva grande mostra, la collezione si apre alle nuove generazioni degli artisti attivi a Torino tra gli anni Ottanta e Novanta ma anche alla fotografia con rassegne che puntualizzano lo storico contributo di artisti dell’area torinese.
Il terzo decennio amplia il campo di intervento della fondazione, oltre all’acquisizioni attente al contesto locale e internazionale, si indice il concorso a inviti per la scultura simbolo delle Olimpiadi Invernali, vinto da Tony Cragg, opera che viene collocata di fronte allo Stadio Olimpico. L’altro intervento di arte pubblica si ha con la grande scultura di Giuseppe Penone che nel 2011 viene posta di fronte alla Gam per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia.

Trent’anni d’arte. Celebrating 30 years of art: 1982-2012, a cura di Marina Paglieri, 238 pp, ill., L’Artistica, Savigliano  2012, s.i.p.

 

On the road con Tremlett

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Il Giornale dell’Arte numero 316, gennaio 2012

Il viaggio come «tecnica» di un nomade nell’animo esplorato in un saggio di Rachele Ferrario

David Tremlett è un artista viaggiatore per certi versi paragonabile a Chatwin. È un viaggiatore che vive la strada, il percorso, che respira il paesaggio e il luogo con tutto ciò che s’incontra e si trova. Di tutte le sue esperienze, le sensazioni provate, le speranze e le delusioni, le gioie e le fatiche rimane un tenue segno che le accorpa e le sublima rendendo a chi guarda l’opera d’arte il senso dell’esperienza fatta che diviene sentire universale.
Tremlett esordisce negli anni Sessanta in ambito concettuale, e attraverso questa matrice che col tempo si è arricchita di una singolare sensibilità, ha interpretato le sue esperienze artistiche e di viaggio fatte di luci, suoni, colori, architetture sino a dare un senso alle culture che in questi anni ha incontrato in quell’unico lungo viaggio che è in sostanza il suo essere artista. Come due altri grandi dell’arte contemporanea, Hamish Fulton e Richard  Long, l’artista inglese tende a instaurare con la natura non un rapporto di conoscenza, ma una tensione mistica di cui il viaggio, esperienza materiale, è solo la «tecnica» d’approccio. Sarebbe sbagliato assimilare Tremlett a molti artisti contemporanei le cui opere sembrano un’applicazione socio-estetica dell’etnologia. Tremlett non è interessato agli aspetti culturali o sociali dell’ambiente che percorre, almeno non direttamente. Egli è colpito dalle sensazioni diffuse, dall’aria che si respira, e il suo essere artista si realizza quando riesce con un gesto, un segno, con un accostamento di colori, a coglierne l’aura e comunicarla a chi guarda l’opera.
Nomade nell’animo, Tremlett studia al Royal College che con la St. Martin’s School of Art è una delle due scuole in cui si forma quella generazione di artisti da Gilbert & George a Richard Long, da Jan Dibbets a Barry Flanagan che buttano a mare la tradizione, seppur possente, di Henry Moore. La scultura non è più marmo e piedistallo ma diventa libera, sino alle esasperazioni di Gilbert & George che trasformano i loro corpi in sculture viventi. Non stupisce quindi che alla sua prima mostra nel 1969 le opere di Tremlett vengano definite «sconcertanti eventi scultorei»: mattoni, cento chiodi in fila, fili di metallo fanno però già capire che si è di fronte non a «oggetti statici, ma a parte di un processo». Già si coglie una cifra che sarà sempre presente nell’opera di Tremlett: il senso del tempo, dell’effimero significante, connaturato al luogo o all’esperienza del viaggio.
L’artista sarà attratto dalla ricerca di Beuys ma anche di Fluxus. Del 1971 è il viaggio in autostop in Australia. La categoria del viaggio, travalicato lo schema concettuale, si svolge come esperienza fenomenologica, registrazione di forme, suoni, colori per «creare trame e ritmi piuttosto che un palcoscenico per un’attività narrativa». E come esperienza ontologica, «Il viaggio per me è alla base della vita». Gli esiti dei suoi successivi viaggi, dall’Oceania all’Africa, dal Centroamerica all’Asia, sono stati esposti nei più importanti musei. Dal 1978 Tremlett realizza wall drawings, disegni e pitture, stendendo pigmento direttamente con le mani sui muri di gallerie e musei. Realizza interventi in chiese abbandonate, dove rende non un’esaltazione della religiosità bensì la spiritualità del luogo. Ma soprattutto paiono ancor più profondi e affascinanti gli interventi su rovine ormai cadenti in luoghi impervi, lasciati al decadimento determinato dal tempo, lontano dall’occhio umano.
Su questo artista che ha fatto del viaggio una forma d’arte, Rachele Ferrario, storica e critica d’arte contemporanea, pubblica da Nomos Edizioni un articolato saggio che ha il grande pregio di non essere scritto in «critichese». L’autrice, pur fornendo approfondite informazioni corroborate da riflessioni critiche, ci conduce con il piacere della lettura attraverso le vicende artistiche di Tremlett dandocene un ritratto completo, passando da un periodo all’altro della sua ricerca con la leggerezza e l’approfondimento propri di un viaggio tremlettiano.

David Tremlett. The Thinking in Space, di Rachele Ferrario, edizione italiana e inglese, 160 pp., ill. b/n e colore, Nomos Edizioni, Busto Arsizio (Varese) 2011, €  22,00

 

Scultori della speranza

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A prima vista il titolo sembrerebbe ricordare più la missione di un’organizzazione non governativa in terre infelici che un testo d’arte contemporanea. Eppure forse già in questo si preannuncia , enfatizzandola, l’essenza stessa del libro. Anna Detheridge nel suo testo infatti affrontando con grande profluvio di rimandi e informazioni, le più recenti questioni dell’arte italiana e internazionale, pone un quesito di fondo. Quale debba o possa essere l’evoluzione dell’arte in un contesto profondamente mutato non solo nei rapporti sociali e relazionali globalizzati ma che preannuncia, con la rete, l’apertura al virtuale. L’approccio è multidisciplinare preferendo al ruolo del critico quello di chi spazia dalla storia dell’arte ai rimandi filosofici, all’analisi del territorio, ai rapporti urbanistici e quindi sociali determinati dalla relazione tra arte, architettura, ambiente. Un testo ricco di stimoli quindi dove il riportare alcune esperienze artistiche sinora trascurate, apre percorsi inusuali nella riflessione sull’arte. Secondo l’autrice, per giungere sino agli attuali accadimenti si deve ripartire dall’esperienza concettuale tenendo conto della sua carica intellettuale e di sensibilità progettuale. Proprio quel concettuale che, soprattutto in Italia, si dava per morto, sepolto dalla deriva postmoderna e transavanguardista, diviene la matrice di un filone che, con esiti alterni, giunge ai nostri giorni. Ma più ancora è proprio da quell’eredità che si deve ripartire per una visione sul futuro. Il volume si articola in quattro grandi temi: l’arte concettuale e la sua eredità, lo spazio fisico e le sue interpretazioni, nuove visioni per la rigenerazione del territorio e poetiche della relazione. Nel primo si affrontano, tra l’altro, alcuni momenti topici come la mostra When Attitudes Become Form, curata da Szeemann nel 1969 in cui intervenne Gilardi cercando di far prevalere, fallendo, posizioni ancor più “rivoluzionarie”. Mostra diventata di culto ed ancora controversa ma sempre punto di riferimento tanto che Germano Celant ne propone una rivisitazione per la Fondazione Prada alla prossima Biennale veneziana. Magari un ritorno alle origini, un recuperare quella forza modernista che corre il rischio di affogare in una società divenuta liquida. Del resto un percorso già segnato c’è e l’autrice ne riprende con passione i passaggi e i temi. Raggiunto il grado zero dell’annullamento dell’opera il processo concettuale si è liberato verso l’esterno nella decostruzione del paesaggio, in una percezione di territorio e di spazio che diveniva sempre più sociale. E’ ancora possibile, in fin dei conti,  un pensiero utopico? Si chiede l’autrice. Sembrerebbe di sì,  se si considerano i più recenti accadimenti di quell’arte che si rivolge al territorio, alle diversità, intessendo poetiche di relazione che, più ancora che all’estetica, guardano ad un’arte dalle forti valenze etiche. E’ l’arte relazionale che costituisce la nuova frontiera in cui “viene permesso al pubblico di partecipare alla fase ideativa o creativa del progetto”. Un’arte che promuove processi concettuali che hanno ricadute nelle pratiche di vita sociale. In effetti la storia del rapporto tra arte e società, dell’arte verso la vita, è storia antica. Puntualmente, quando emerge, viene messa in quarantena dal sistema dell’arte, per poi essere affossata. Ma forse i tempi sono cambiati.  Il processo relazionale è ontologicamente affine al mondo della rete. La globalizzazione e Internet  richiedono una nuova avanguardia e gli artisti possono (devono) fare la loro parte.

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