Fare memoria. Perché conserviamo il nostro patrimonio culturale

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“Fare memoria. Perché conserviamo il nostro patrimonio culturale” è il titolo del saggio di Henri-Pierre Jeudy pubblicato da Giunti. Titolo asettico a confronto di quello originale “La Machine patrimoniale”, definizione azzeccata e inquietante del  meccanismo che l’autore descrive nel saggio. Jeudy, sociologo, si occupa di patrimonio culturale ma è anche autore di opere sulla paura e sul privato nella vita quotidiana secondo quella che viene definita “antropologia dell’implicito”.  Ma che cos’è la Macchina patrimoniale? L’autore parte dall’assunto che nella nostra società la conservazione del patrimonio culturale ha raggiunto un tale livello di diffusione da impedirci un corretto rapporto con il passato e le sue vestigia. La conservazione del patrimonio culturale, che in qualche modo consente l’elaborazione del lutto, diviene un obbligo: “non siamo più liberi di dimenticare, l’oblio è considerato un crimine”.  Ed è l’organizzazione stessa del patrimonio culturale, che dalla fine del XX secolo si è sempre più ampliata, ad occupare sempre più quei margini di memoria che ancora si realizzavano in modo accidentale. Si crea e si diffonde così uno “spirito patrimoniale”  che impone anche la finalità della stessa creazione artistica che nasce per finire in un museo. Ma questo fenomeno cela un inganno: tutto ciò che si conserva e si trasmette diviene attualizzato. Viene meno la distinzione tra passato, presente, futuro in quanto tutto viene racchiuso e rappresentato in un simulacro simbolico, in una sorta di normalizzazione. Approfondendo la sua analisi l’autore prende in considerazione il concetto di “processo di riflessività” secondo il quale la società occidentale ha la necessità di creare uno “sdoppiamento spettacolare” con uno “raddoppiamento museografico del mondo” a confronto con le specificità della società nipponica in cui la parola “patrimonio” neppure esiste. Un caso particolare che attesta l’affermarsi della Macchina patrimoniale è la diffusione degli ecomusei. In questi casi la logica della conservazione svolge una funzione politica di rinsaldamento sociale ed i luoghi del lavoro e della produzione divengono simboli di coesione sociale, di valori comuni nei quali riconoscersi. Ma il processo di museificazione nella sua rappresentazione tende a porsi su un piano estetico, edulcorando o ignorando le memorie di fatiche e di soprusi che quei luoghi ospitavano. Il patrimonio industriale svolge quindi un funzione catartica arricchendo la visione della vita operaia di un elemento estetico che la rende, in fin dei conti, non così dura e comunque appartenente ad un mondo che non potrà più ritornare. In un museo giapponese dedicato al lavoro in miniera, la “memoria” di un tempo viene evocata con la fredda ripetitività di robot che imitano il lavoro dei minatori.

Sulle interpretazioni e sulla diffusione dell’impostazione patrimoniale un particolare ruolo lo hanno svolto gli etnologi che hanno guardato al patrimonio dei beni culturali non sotto l’aspetto della conservazione bensì come osservazione delle tradizioni e dei riti.

Tornati dai Paesi esotici, così come avevano compiuto ricerche sulle tribù indigene, gli etnologi cercano le origini della società contemporanea nel suo patrimonio culturale. Tale approccio che si diversifica da quello meramente conservatore, assume ben presto, soprattutto in Francia, un’importante valenza politica, soprattutto nell’indagine sui territori locali e sulle problematiche inerenti all’identità collettiva, da salvaguardare nel confronto con la dilagante globalizzazione.  Il paradosso si raggiungere quando gli oggetti stessi dell’osservazione etnologica si atteggiano secondo lo sguardo dell’etnologo, divenendo custodi di pratiche del passato ormai prive di un reale significato: una sorta di museografia dell’individuo dove il contadino di una determinata regione deve corrispondere a specifiche caratteristiche, caratteristiche risultate dal lavoro dell’etnologo. Ma la macchina patrimoniale non si ferma nemmeno di fronte a problematiche epocali come quella dei rifugiati, dei migranti, degli sciagurati del mondo in fuga da qualche cosa. Anch’essi debbono essere ricondotti ad etnie, a gruppi etnici che sono oggetto di attenzione per una loro sistemazione o ricollocazione mentre passano in secondo piano le cause che le hanno provocate. Si può essere d’accordo o meno con le riflessioni di Jeudy ma senza dubbio l’autore ha la capacità di riportare l’attenzione con originali intuizioni, su un meccanismo simbolico che sta alla base della società occidentale e sulla centralità del simbolo. Le sue osservazioni come i capitoli dedicati al ruolo dell’oggetto, alle dinamiche dell’attualizzazione e sulla percezione delle catastrofi ci fanno comprendere maggiormente il grande confronto in atto tra beni simboli e pratiche consumistiche e spettacolari che sono la caratteristica della nostra società.