Scultori della speranza

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A prima vista il titolo sembrerebbe ricordare più la missione di un’organizzazione non governativa in terre infelici che un testo d’arte contemporanea. Eppure forse già in questo si preannuncia , enfatizzandola, l’essenza stessa del libro. Anna Detheridge nel suo testo infatti affrontando con grande profluvio di rimandi e informazioni, le più recenti questioni dell’arte italiana e internazionale, pone un quesito di fondo. Quale debba o possa essere l’evoluzione dell’arte in un contesto profondamente mutato non solo nei rapporti sociali e relazionali globalizzati ma che preannuncia, con la rete, l’apertura al virtuale. L’approccio è multidisciplinare preferendo al ruolo del critico quello di chi spazia dalla storia dell’arte ai rimandi filosofici, all’analisi del territorio, ai rapporti urbanistici e quindi sociali determinati dalla relazione tra arte, architettura, ambiente. Un testo ricco di stimoli quindi dove il riportare alcune esperienze artistiche sinora trascurate, apre percorsi inusuali nella riflessione sull’arte. Secondo l’autrice, per giungere sino agli attuali accadimenti si deve ripartire dall’esperienza concettuale tenendo conto della sua carica intellettuale e di sensibilità progettuale. Proprio quel concettuale che, soprattutto in Italia, si dava per morto, sepolto dalla deriva postmoderna e transavanguardista, diviene la matrice di un filone che, con esiti alterni, giunge ai nostri giorni. Ma più ancora è proprio da quell’eredità che si deve ripartire per una visione sul futuro. Il volume si articola in quattro grandi temi: l’arte concettuale e la sua eredità, lo spazio fisico e le sue interpretazioni, nuove visioni per la rigenerazione del territorio e poetiche della relazione. Nel primo si affrontano, tra l’altro, alcuni momenti topici come la mostra When Attitudes Become Form, curata da Szeemann nel 1969 in cui intervenne Gilardi cercando di far prevalere, fallendo, posizioni ancor più “rivoluzionarie”. Mostra diventata di culto ed ancora controversa ma sempre punto di riferimento tanto che Germano Celant ne propone una rivisitazione per la Fondazione Prada alla prossima Biennale veneziana. Magari un ritorno alle origini, un recuperare quella forza modernista che corre il rischio di affogare in una società divenuta liquida. Del resto un percorso già segnato c’è e l’autrice ne riprende con passione i passaggi e i temi. Raggiunto il grado zero dell’annullamento dell’opera il processo concettuale si è liberato verso l’esterno nella decostruzione del paesaggio, in una percezione di territorio e di spazio che diveniva sempre più sociale. E’ ancora possibile, in fin dei conti,  un pensiero utopico? Si chiede l’autrice. Sembrerebbe di sì,  se si considerano i più recenti accadimenti di quell’arte che si rivolge al territorio, alle diversità, intessendo poetiche di relazione che, più ancora che all’estetica, guardano ad un’arte dalle forti valenze etiche. E’ l’arte relazionale che costituisce la nuova frontiera in cui “viene permesso al pubblico di partecipare alla fase ideativa o creativa del progetto”. Un’arte che promuove processi concettuali che hanno ricadute nelle pratiche di vita sociale. In effetti la storia del rapporto tra arte e società, dell’arte verso la vita, è storia antica. Puntualmente, quando emerge, viene messa in quarantena dal sistema dell’arte, per poi essere affossata. Ma forse i tempi sono cambiati.  Il processo relazionale è ontologicamente affine al mondo della rete. La globalizzazione e Internet  richiedono una nuova avanguardia e gli artisti possono (devono) fare la loro parte.

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