Si può considerare l’arrivo in Italia della televisione negli anni Cinquanta, come un acceleratore del processo di trasformazione sociale dalla civiltà contadina a quella industriale. Con il fenomeno dell’immigrazione interna fu l’elemento che contribuì maggiormente a uniformare la vita degli italiani facendoli passare dai campi ad una società che scopriva per la prima volta la possibilità di dimenticare la fame e sognare il benessere. La classe dirigente dell’epoca capì, dopo un primo sbandamento, che lo strumento aveva potenzialità mai viste e che, oltre a creare occasioni di svago, poteva addirittura cambiare i costumi e i modi di pensare. Andava utilizzato ma soprattutto andava controllato. La televisione diviene così strumento didattico e di divertimento ( moderato).
Dagli sceneggiati teatrali a Non è mai troppo tardi, da Lascia o raddoppia? a Carosello la televisione svolge la funzione di mass medium di acculturazione e di valvola di sfogo, sempre sotto l’occhio guardingo di funzionari che sapevano dirigere e nel caso censurare. Negli anni successivi la televisione si trasformerà, seguendo l’evoluzione sociale e determinandola essa stessa. In particolare nei confronti dell’arte la televisione negli anni del monopolio ha assunto posizioni diverse. Essendo l’emanazione di centri di potere istituzionale, partitico e mediale che storicamente hanno sempre tenuto in poco conto la cultura, la sua attenzione verso l’arte in generale ed in particolare quella di ricerca è stata limitata, con qualche sporadico maldestro tentativo di divulgarla. L’arte e la sua storia sono comunicate con un linguaggio aulico, pedissequamente imitatore della critica del tempo, in trasmissioni, fatte salve alcune eccezioni di pregio, destinate ad un pubblico ristretto. Sorte peggiore tocca all’arte di ricerca che è considerata piuttosto soggetto di quiz che di approfondimento. Tale situazione si protrae sino alla società del consumismo spettacolare che inizia negli anni Ottanta e si sviluppa con la prolificazione prima dei canali poi delle emittenti, sino a giungere alla televisione di oggi sempre più indirizzata ad un rapporto interattivo con il pubblico, ad una selezione tematica dei programmi, alla tendenza a creare zone di scambio con l’universo virtuale.
Riguardo all’arte le questioni aperte e i problemi teorici che si pongono si concentrano sia su un utilizzo del mezzo che potremmo definire funzionale, sia sulla televisione come medium in sè. La capacità divulgativa del mezzo televisivo negli ultimi anni da un lato si è ampliata e potenziata potendo usufruire di immagini sempre più definite e spettacolari, dall’altro ha fornito programmi sempre più dedicati e canali tematici che consentono approfondimenti e varietà di temi. Al contempo le trasmissioni sull’arte si sono via via liberate dagli approcci ingessati aprendosi ad una narrazione di matrice anglosassone. Tale apertura, dovuta alla diffusione anche in Italia di produzioni di canali culturali europei, ha ampliato le possibilità di divulgazione della storia dell’arte e ha favorito anche un approccio all’arte di ricerca, anche se vista ancora nel suo aspetto di fenomeno glamour o “scandaloso” o mischiato a altri generi di tendenza piuttosto che essere preso in considerazione come processo creativo. Un’altra questione che diverrà nei prossimi anni centrale sarà la ridefinizione del medium televisivo non più soltanto inteso come divulgatore verso soggetti passivi ma con elementi di interazione sempre più accentuati.
In questo quadro, nel nuovo spazio operativo che si viene a creare, viene da domandarsi quale potrà essere il ruolo dell’arte non più solo oggetto di divulgazione ma momento di creazione “televisiva”.
Il volume “ Arte in TV. Forme di divulgazione”, a cura di Aldo Grasso e Vincenzo Trione, approfondisce i temi trattati in un recente convegno universitario, tenutosi a Milano con contributi di vario segno. Una prima parte è dedicata al rapporto tra arte e televisione: consenziente, manipolatorio, contradditorio. Nella seconda vengono analizzati tre periodi storici. Aldo Grasso affronta le problematiche della divulgazione tra mediazione e mediatizzazione nei primi anni della RAI. Massimo Scaglioni si sofferma sull’arte nella tv commerciale degli anni Ottanta. Con Cecilia Penati viene affrontato il tema del cambiamento di sistema dovuto al fenomeno della digitalizzazione che porta, se non alla fine del mezzo televisivo (come molti pensavano), ad un aumento dell’offerta e ad una vera e propria ridefinizione della natura del medium. Nella terza parte troviamo i “critici d’arte in TV. Origine, ricerca e divulgazione di nuovi linguaggi di Tommaso Casini mentre Anna Luigia De Simone ci conduce sul periglio percorso di “come si guarda un quadro in televisione” dal grande John Berger alle gesta di Federico Zeri, Vittorio Sgarbi, Flavio Caroli e Philippe Daverio, per citare i più noti. Nella quarta parte sono di scena non solo i critici ma anche gli artisti. Dopo il saggio di Massimiliano Panarai sull’evoluzione del critico a neoicona pop, Veronica Gaia di Orio approfondisce l’uso del documentario d’arte nella televisione italiana. Last but not least “Gli artisti e la televisione” il saggio di Rachele Ferrario che ha come sottotitolo una “relazione pericolosa” dove si comprende perché la televisione abbia sempre tenuto a distanza gli artisti, e gli artisti, salvo alcuni ardimentosi, se ne siano tenuti alla larga. Il volume si chiude con un saggio di Cecilia Penati che cerca di tracciare una storia dei programmi sull’arte in Italia. Una storia complessa che il volume ben analizza, rivelandone aspetti storici ma anche suggerendo relazioni ancora tutte da scoprire.