Ai Weiwei il blog

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Ai Weiwei è senza dubbio il prototipo di intellettuale del nostro tempo, nato dalla confluenza del passato e del futuro  e frullato nella contemporaneità globale del web. Insieme di stimoli opposti, l’artista cinese  è riuscito mettere insieme l’antica cultura tradizionale del suo paese e le istanze del neomaoismo con lo spirito neodada  mutuato da Duchamp e del consumismo spettacolare newyorkese alla Andy Warhol.

Oggi Ai Weiwei è considerato uno dei personaggi più significativi del nostro tempo. Significativo ma anche molto controverso. Infatti indubbiamente rappresenta la  quintessenza dell’artista contemporaneo che spazia dall’architettura al web e che utilizza l’arte come elemento di cambiamento sociale, attraverso l’uso del blog come efficace strumento di lotta per i diritti civili.  Ma per i più maligni Ai Weiwei è anche un abile promotore di se stesso che ha saputo far carriera in Cina senza mai rompere con il regime e sfruttare il dissenso politico per farsi conoscere a livello mondiale. L’infanzia di  Ai Weiwei è segnata dalla Rivoluzione Culturale quando deve assistere alla rieducazione del padre, insigne poeta, costretto a pulire i gabinetti pubblici. Finito il dominio della Banda dei Quattro e apertosi uno spiraglio di libertà con la Primavera di Pechino, Ai Weiwei partecipa  ai primi fermenti di attivismo politico che si esprimono con il Muro della Democrazia dove i dazibao danno voce alla protesta politica che rivendica nella democrazia la vera “modernizzazione” di cui ha bisogno la Cina: momento che si conclude nel 1979 con l’arresto di gran parte dei dissidenti. L’artista, deluso dalla politica, si avvicina al gruppo Stars composto da artisti che, dopo  più di dieci anni di “arte per il popolo”, cercano nuovi modi espressivi. La loro prima mostra riesce a stare aperta solo due giorni prima di essere chiusa dalle autorità.  Non resta che l’espatrio. A New York Ai arriva con trenta dollari in tasca. Studia e fa vari lavori, frequenta la scena artistica, espone, fa scioperi della fame per piazza Tienanmen. Nel 1993 per una malattia del padre rientra in Cina dove partecipa ai primi movimenti artistici in quello che viene chiamato l’Est Village di Pechino. L’apporto di Ai al dibattito artistico fu fondamentale e servì non solo ad aprire all’arte occidentale ma a consentire una riflessione più analitica e concettuale delle esperienze artistiche. Nel corso degli anni la ricerca di Ai spazia dai pezzi di mobilio, ai progetti curatoriali, agli archivi e gallerie sperimentali, ai progetti di architettura. Nel 2003 fonda lo studio FAKE DESIGN (in cinese si pronuncia come “fuck”) che progetta e realizza più di settanta edifici e il progetto di una città nel deserto della mongolia interna. La sua è un’architettura basata su elementi semplici e essenziali in contrasto con il gusto imperante in Cina, che privilegia elementi decorativi.  Ma l’evento che lo rende famoso è la mostra Fuck off , curata con Feng Boyi, una collettiva di opere provocatorie, vere e proprie sfide  alle autorità, che si tiene in concomitanza alla Biennale di Shanghai del 2000. La mostra fu subito chiusa ma nel frattempo viene visitata dagli addetti ai lavori di tutto il mondo. Nel 2003 collabora con Jacques Herzog & Pierre de Meuron per il progetto del nuovo stadio nazionale di Pechino, divenuto famoso come “nido d’uccello”. In questi anni Ai è ormai divenuto un personaggio emblematico per la ricerca artistica in Cina e per i complessi rapporti giocati su elementi di libertà espressiva e identità con l’occidente. Ma è con la partecipazione al lancio della piattaforma blog sina.com nel 2005 che Ai diviene un vero e proprio fenomeno mediatico. Scopre il web sia come originale forma letteraria, che come divulgazione, tramite immagini, della sua vita e del suo lavoro. La presa di coscienza delle capacità connettiva della rete sta alla base di Fairytale, l’installazione realizzata per documenta 12 in cui l’artista invita, tramite il suo blog, 1001 cinesi a Kassel. L’opera è peculiare dell’agire di Ai Wei Wei: utilizzando gli strumenti della modernità (la capacità di connessione), stravolge i rapporti di potere e di gerarchia,  mette in crisi il sistema ma recupera  un concetto, quello di massa (qunzhong),  basilare dell’ideologia maoista, accantonato dalla Rivoluzione culturale. Nel 2008 Ai prende le distanze dalle celebrazioni per le Olimpiadi e sempre di più i suoi blog divengono atti di accusa contro il malgoverno, per una maggiore trasparenza nella gestione del potere, soprattutto nei casi di sciagure dovute in parte all’incuria o a una cattiva amministrazione. Prende posizione quando, per la pessima qualità degli edifici scolastici, durante il terremoto  nel Wenchuan muoiono migliaia di scolari. Centinaia di volontari vanno nelle zone terremotate per scoprire il vero numero delle vittime. La reazione delle autorità non si fa attendere: i volontari vengono intimiditi, Ai subisce un’aggressione, il suo blog viene chiuso nel 2009. Ai Wei Wei passa a Twitter dichiarando che tutte le citazioni di Mao sono più brevi di 140 caratteri. A confermare la connessione tra arte e vita tramite il web sono le mostre che Ai tiene nel 2009 quando al Mori Art Museum di Tokyo e alla Haus der Kunst di Monaco realizza installazioni in cui l’elemento dominante sono  gli zainetti dei bambini abbandonati tra le macerie. Pur essendo ancora considerato “un servo degli imperialisti americani” Ai Wei Wei si è creato in Cina una vasta notorietà che ha impedito un intervento diretto delle autorità che non hanno usato sinora la mano pesante, limitandosi a fare pressioni e ad intervenire sugli attivisti meno noti. Tuttavia Ai è già stato vittima di una aggressione e nel giugno del 2011 è stato arrestato, e poi rilasciato su cauzione, per l’accusa di frode fiscale. Il confronto in atto si basa su equilibri delicati. Ai non si pone come contestatore del sistema ma critica aspramente il malgoverno e la cattiva amministrazione, e ciò, nel sottile gioco del potere cinese, può essere di danno ad alcune amministrazioni ma può fare il gioco di altre. Altresì la blogosfera dove opera Ai sta divenendo per le autorità cinesi un fenomeno incontenibile, scardinando il sistema di controllo delle informazioni con un metodo, quello dell’espressione diretta delle masse via web, che un sistema neocomunista si trova in imbarazzo a reprimere. Le autorità preferiscono andare caute rimuovendo i post troppo critici, arrestando qualche dissidente poco noto, studiando nuovi metodi di censura elettronica. L’opera di Ai Wei Wei, tramite il web, è divenuta un’opera d’arte globale che comprende sia i blog come le installazioni, i suoi scritti come i twitter, l’architettura e le modalità del vivere come la libertà di espressione. La sua opera la si può conoscere in una piccola mostra in corso sino al 10 giugno al Magasin3 di Stoccolma mentre il suo pensiero lo possiamo scoprire grazie alla pubblicazione dei suoi scritti, interviste, invettive dal 2006 al 2009 nel volume Ai Weiwei Il blog, edito da Johan & Levi e curato con perizia da Stefano Chiodi. Non  si tratta di blog esclusivamente politici ma testi che permettono di avere una visione complessiva della personalità e del pensiero dell’artista. Un’utile lettura non solo per scoprire uno dei fenomeni più attuali dell’arte contemporanea ma anche per scoprire quell’universo cinese che sta transitando dalla cultura tradizionale di stampo contadino e marxista a quella cyber-neomaoista.

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Paesaggio senza figuracce: l’arte pubblica pretende un’etica

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Il Giornale dell’Arte, n.312, settembre 2011

Critici, artisti, esperti riflettono sul variegato rapporto tra produzione artistica, spazio urbano e trasformazione sociale

C’è un’immagine nel libro “Paesaggio con figura. Arte, sfera pubblica e trasformazione sociale” che rende emblematicamente il tema trattato. Si tratta di “Washington Square” di G. Sabatini in cui si vede un monumento a Garibaldi ai cui piedi un gruppo di ragazzi gioca a pallavolo. Per effetto dell’inquadratura la rete taglia a metà il monumento.  Da una parte la rappresentazione tradizionale di valori immortalati nella pietra, dall’altra la società che muta. La storia dell’arte pubblica parte da questa contraddizione. Come si può rappresentare l’evolversi sempre più veloce della società con modalità e raffigurazioni nate nell’Ottocento? Un quesito non da poco che vede coinvolti non solo artisti, ma anche assessori, architetti, funzionari del comune e infine i cittadini che, ignorando le teorizzazioni dei critici, si ritrovano sotto casa ad inaugurare monumenti, realizzati secondo canoni superati,  decisi da improvvidi assessori o un’installazione “moderna”  che si è voluta, anche nel più sperduto paesino, per essere al passo con i tempi. Ogni cittadina dalle Alpi alla Sicilia si può vantare, si fa per dire,  di un monumento “classico”o di un’installazione “moderna” la cui funzione, nel migliore dei casi, potrebbe essere quella di arredare una rotonda. Risultato che spesso si ottiene anche quando vi sono le migliori intenzioni e i migliori presupposti.  Ancora si ricordano le perplessità dei milanesi per la grande installazione “Alba di luce” dell’architetto Ian Ritchie. Posta di fronte la Stazione Centrale di Milano, detta impietosamente da Emilio Tadini “la branda”, venne smantellata a seguito delle proteste dei cittadini. Costo: due milioni di euro. A Torino i residenti di Largo Orbassano, pur con una compostezza tutta torinese, non esitavano a rilevare, all’inaugurazione, quanto  l’installazione rigorosa di un artista come Per Kirkeby, ricordasse un gigantesco orinatoio pubblico. Fanno ancor più riflettere le vicende di Gibellina, la cittadina distrutta dal terremoto del Belice nel 1968 e ricostruita su un progetto, di alto livello, basato sull’apporto dato dall’arte e dall’architettura che si è scontrato con l’incomprensione e l’arretratezza di un territorio. Il “Grande Cretto” di Burri, simbolo della tragedia e della ricostruzione,  giace in condizioni disastrose in attesa di un restauro annunciato tre anni fa. Nel frattempo si è permesso che l’opera e l’ambiente venissero sfregiate con la costruzione di enormi pale eoliche che oggi fanno da fondale all’opera di Burri.

Il rapporto fra arte e società si è evoluto ulteriormente  andando oltre la componente celebrativa e monumentale. Documenta del 1998, curata da Okwui Enwezor, sancisce l’apertura verso la realtà sociale. La strada, già indicata da Beuys e in Italia da Pistoletto e Gilardi, viene percorsa in molteplici direzioni, sembrando confermare quella morte dell’arte  preconizzata da Hegel, vista ora come il suo trasformarsi in filosofia, sociologia, architettura e anche in politica.

Gli artisti si aprono all’habitat e al sociale intervenendo nella realtà, cercando di influire sui processi sociali in corso. Dall’arte ambientale si passa all’arte relazionale, alla Public Art nelle sue varie declinazioni di Community Art, Social Aesthetics, Connective Aeshetic , e così via.

Il referente non è più o non solo l’ambiente in cui l’artista opera ma il contesto sociale e economico, l’insieme dei valori, patrimonio degli abitanti che da pubblico divengono partecipi del fare artistico. L’ambizione o l’utopia è che l’arte possa essere elemento di cambiamento o quanto meno di interpretazione del sociale.

“Paesaggio con figura”, a cura di Gaby Scardi, nato dal progetto Susaculture, diretto da Catterina Seia, raccoglie i saggi di esperti italiani e stranieri, inducendo ad una serie di riflessioni sul variegato rapporto tra arte, spazio urbano e trasformazione sociale.

Ampi e approfonditi sono i temi trattati da teorici, operatori culturali, artisti. Un testo di Maria Lind del Tensta di Stoccolma affronta alcuni esempi di criticità. Francesco Tedeschi approfondisce il tema della collocazione urbana del monumento. Adriana Polveroni svolge un’analisi dall’arte ambientale all’arte pubblica.

 Il rapporto tra quanto l’arte influisca sulla dimensione sociale viene approfondito anche da chi opera per l’innovazione dei servizi della Pubblica Amministrazione come Massimo Simonetta così come da chi si occupa di politiche urbane come Davide Ponzini. Pelin Tan, sociologa e storica dell’arte, spiega come l’arte possa intervenire nello spazio simbolico di una società creando fenomeni di controcultura in grado di mettere in crisi contesti acquisiti. Il critico Alessandra Pioselli traccia storie parallele di Public Art tra Italia e USA, sottolineando come il rapporto con il pubblico, nella diversità di impostazione, sia l’elemento principale di riuscita o meno dell’opera. Un’ altra storica dell’arte,  Francesca Comisso, invita ad una riflessione sulle nuove forme di partecipazione, in particolare con riferimento al progetto Nuovi Committenti realizzato a Torino da a.titolo.  Anna Detheridge e Anna Vasta illustrano il lavoro di Connecting  Cultures, agenzia che realizza progetti interdisciplinari e interculturali. Julia Draganovic  dall’esperienza  de “L’impresa dell’Arte”, tenutasi al PAN nel 2008,  compie un approfondimento sulle opere di Susanne Bosch  e la copia di artisti finger che hanno realizzato opere per le quali è stata richiesta la partecipazione del pubblico.

Ovviamente la questione di un’arte rivolta al sociale diventa un tema di fondo tra i critici che si dividono tra i sostenitori dell’estetica e quelli attenti al lavoro degli artisti  “partecipativi”, delle pratiche relazionali, spesso politicamente impegnati.  La svolta sociale dell’arte porta ad un conseguente approccio etico della critica d’arte. Il dibattito si fa sempre più incandescente come attestano i saggi di Claire Bishop e Grant Kester, pubblicati da Artforum e che il volume pone a confronto, dove tra le prese di posizione e le sottigliezze critiche, non ci si risparmia velenosi apprezzamenti.

Particolarmente sentiti sono gli interventi degli artisti. Maria Thereza Alves pone alla base dei suoi lavori testimonianze della gente (comunità e singoli individui) o sui segni del territorio (i corsi dei fiumi). Gennaro Castellano, teorico e artista, utilizza la prassi interdisciplinare come elemento principe di Reporty System , l’associazione per l’arte da lui fondata. Dice Carlos Garaicoa, artista di fama internazionale : “Non sarebbe sbagliato affermare che il linguaggio artistico rende l’uomo un essere più pluriforme e spregiudicato, inoltrandosi laddove non arriva il linguaggio comune. Allo stesso modo, non sarebbe sbagliato dire che, per la sua capacità di astrazione , l’arte può rendere più complesso  l’apprendimento del mondo in molti sensi”.  Da qui la necessità di passare da un’arte attenta al luogo ad un’arte immersa nel contesto. Viene riportata una conferenza di Jochen Gerz,  autore del “Monument against Fascism” una colonna di dodici metri che verrà ricoperta di firme e del “Monumento futuro” di Coventry. Jeanne Van Heeswijk sottolinea la distinzione tra sfera pubblica e spazio pubblico e come la prima implichi un insieme composito.  Per Maria Papadimitriou “L’arte potrà anche non essere in grado di cambiare il mondo, ma certamente può indurre la gente a pensare” e da questa convinzione nasce un museo senza barriere. Per Cesare Pietroiusti, protagonista dell’arte relazionale, “quello che gli artisti possono fare è insieme la cosa minima ma anche massima: dichiarare e dimostrare che esistono  modi di vedere , di interpretare, di ‘usare’ la realtà che non sono già dati dal pensiero omologato e autoritario dello spettacolo, delle istituzioni, della politica”. Marjetica Potrč invita a riflettere sulle sue esperienze sui cambiamenti sociali avvenuti in contesti completamente diversi:  in un territorio dell’Amazzonia e  ad Amsterdam con un progetto on-site, e delineare le modalità di passaggio dall’oggetto-scultura all’oggetto relazionale e dallo spazio pubblico allo spazio condiviso.  Infine Bert Theis porta l’esperienza fatta come coordinatore del progetto “out-Office for Urban Transformation” e “Isola Art Center” a Milano. L’intervento di chiusura dell’economista  Pier Luigi Sacco più che trarre conclusioni solleva, giustamente, su un tema in piena evoluzione e in cui molti vedono il volto etico dell’arte di domani, nuovi interrogativi.

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Il nudo

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Il Giornale dell’Arte, n.331, maggio 2013

Una storia senza veli

Dalla Venere di Willendorf alle performance della Abramovic nel racconto di Flaminio Gualdoni

«La nudità è un fatto di consapevolezza, di coscienza. È uno stato dell’animo e dello sguardo». Aprendo con queste parole il suo testo dedicato alla rappresentazione del nudo Flaminio Gualdoni dà il senso a tutta la storia che si dipana nelle pagine seguenti e che traccia, con approfondimenti e rimandi, il riferimento primario delle arti visive. Una storia che inizia agli albori dell’umanità con il simbolismo della fertilità e della femminilità. Successivamente nella Grecia classica Afrodite è la rappresentazione della bellezza ma è anche dea della visione e quindi delle arti del vedere. Visione celeste e desiderio carnale si assommano e continueranno il loro gioco, palese o celato, per secoli rappresentandolo nelle arti visive.
Nell’antica Grecia il nudo è al centro di valori estetici ed etici. Bellezza ma anche eccellenza fisica e morale competono all’atleta, al guerriero e al cittadino. I Greci delle origini si riconoscono nella scultura raffigurante il giovane nudo, paradigma di proporzioni, bellezza che diviene classica in cui ethos e pathos si confrontano: «tutto ciò che è buono è bello, ed il bello non è privo di simmetria». La bellezza del corpo si trova nella proporzione delle parti. L’Apollo classico ne era il modello. Se la coscienza dell’insieme formato da parti sta alla base della polis greca nel periodo successivo con l’affermarsi dell’impero di Alessandro, crogiuolo di genti, le divinità rimandano a modelli policentrici e individuali. L’elaborazione di una soggettività, prima sconosciuta, esalta ilmito di Narciso. Ora è l’individuo che si rapporta al divino e il mito di Narciso che rimanda a un processo di riproduzione dell’immagine, è trasposizione dell’arte stessa. Nella Roma repubblicana «l’inizio della scelleratezza è il denudare i corpi in pubblico», come afferma Ennio. Il nudo è per gli schiavi, per i nemici vinti, per i criminali, per coloro che devono sottostare ai castighi della legge. È per il Cristo in croce, sulla cui nudità vilipesa poggerà la forza della fede. Nell’impero, accanto al nudo eroico di modello greco che assume il condottiero o l’imperatore come «divus», ben presto si afferma il nudo di matrice ellenistica in cui la mitologia pagana è pretesto che a fatica nasconde il piacere degli occhi. La «luxuria», da un lato sfarzo e ricchezza pubblicamente accettata, alla moda greca, e dall’altro dissolutezza di costumi, si diffonde ampiamente come stanno a testimoniare nel I secolo d.C. i reperti pompeiani e l’ampio repertorio di veneri. Ma è nel Cinquecento che si giunge alla piena teorizzazione e rappresentazione con l’Uomo vitruviano di Leonardo e nella superba realizzazione nella Pietà Rondanini di Michelangelo, dove lo studio del corpo lascia il campo alla creazione artistica al di là del rapporto con il classico. Dai nudi belliniani a Giorgione e Tiziano le varie allegorie cedono sempre più il campo al compiacimento dello sguardo, alla piena bellezza carnale dei corpi. Il nudo, elemento di riferimento primario, segna con le sue varie interpretazioni il mutare dei tempi. Nel clima della controriforma il Giudizio Universale di Michelangelo, voluto da Clemente VII, turba il sonno dei benpensanti e soprattutto del clero ma è anche artisticamente dirompente: l’unità formale dell’affresco diviene straripante visione dei corpi. Toccherà a Daniele da Volterra, sotto Pio IV, coprirne le nudità ritenute scandalose, passando alla storia con l’appellativo diBraghettone. Del resto foglie di fico compaiono in sculture e dipinti a coprire le pudenda di veneri, eve e adami, e anche cristi in croce. In tempi più recenti, negli anni del dopoguerra lamistica fascista si deve inchinare a un molto prosaico e democristiano senso del pudore: le statue degli atleti del Foro Italico dovranno indossare foglie di fico in metallo che l’allora sottosegretario Giulio Andreotti definì «cazzarolette». Seguendo il percorso dell’arte dalle lussureggianti visioni di Rubens e Bernini si giunge sino agli ultimi maestri del Barocco comeSebastiano Ricci, Luca Giordano e Tiepolo e all’impianto teatrale di Caravaggio. La grande pittura galante del Settecento porta a compimento il processo di laicizzazione dello sguardo. Abbandonate le pose auliche, tutto diviene voluttà. Le scoperte di Winckelmann e la filosofia illuminista riportano l’attenzione sulla Grecia e sulla componente etica dell’arte, virtù filosofica e morale ma anche metafora della verità «nuda». Ma è nel confronto tra Neoclassicismo e Romanticismo che il nudo svolgerà una funzione ancor più dirimente nelle vicende dell’arte: la realtà effettiva sostituisce l’idealità. La nuova classe sociale, la borghesia, non sa che farsene della mitologia, volge lo sguardo alla realtà del mondo brulicante della rivoluzione industriale, apprezzandone anche la sua spettacolarizzazione con modelle in carne e ossa, odalische sognate, prostitute viste per strada. La scandalosa «Olympia» di Manet ci riporta una donna che nella sua nudità è espressione di modernità, sfacciatamente conscia del suo stato e disposta a giocarsi un ruolo nella società. Per gli impressionisti il nudo è funzionale al recupero della realtà in chiave antiaccademica inserita nel grande tema del nuovo linguaggio dell’arte sino alla monumentalizzazione della forma come nelle «Grandi Bagnanti» di Renoir.
Le vicende dell’arte contemporanea mutano completamente la visione del corpo. Mentre nella fotografia si libera dei riferimenti ai canoni del passato, nella pittura e nella scultura il corpo umano diviene nella sua specificità strumento espressivo, tavola pittorica o materia da plasmare.L’arte rinunciando alla sfida di rappresentarlo, se ne appropria. Con Yves Klein e Piero Manzoni il corpo diviene strumento, aprendo agli inizi degli anni Sessanta a tutta la lunga stagione della sperimentazione. Da Neuman ad Abramovic il corpo nudo viene esposto in performance e in video, filmato, fotografato, manipolato e ingiuriato nelle forme estreme. Diviene scultura vivente, elemento di denuncia, materiale da plasmare. Tanto da attestarne ancora una volta la sua centralità.

Storia generale del nudo, di Flaminio Gualdoni, 296 pp., ill., Skira, Milano 2012, € 29,00

di Massimo Melotti, da Il Giornale dell’Arte numero 331, maggio 2013

Non ci capisco niente. Arte contemporanea, istruzioni per l’uso

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Da qualche tempo le case editrici hanno scoperto il filone “dell’arte contemporanea per tutti”. Encomiabile iniziativa con la quale si spera di allargare la platea di lettori, stufi di testi critici incomprensibili o timorosi di avvicinarsi ai misteri dell’arte per paura di passare per fessi. Ce ne sono di vari livelli (di libri), da quelli per gli addetti ai lavori a quelli per coloro che vogliono approfondire la materia ed altri ancora che, spiace segnalarlo, si riducono a patchwork di saggi scritti per altre occasioni e riciclati con qualche variante in una veste grafica appagante.Un esempio di come l’arte contemporanea può essere spiegata con semplicità e efficacia, svolgendo un positivo ruolo di divulgazione, è dato dal recente libro di Francesco Poli “Non ci capisco niente. Arte contemporanea istruzioni per l’uso”, edito da Electa, che, fin dal titolo e dalla copertina “pop”, dichiara apertamente di rivolgersi a coloro che vogliono avvicinarsi all’arte contemporanea,  possibilmente senza sottostare a fumosi discorsi critici e frustranti elucubrazioni curatoriali, o, all’opposto, sorbirsi pregiudizi e banalità della serie “lo potevo fare anch’io”. Giustamente e efficacemente il volume si basa sull’essenziale. Dopo un’accattivante copertina, per cercare di farsi vedere sugli scaffali sempre più affollati delle librerie e tanto per dare un pizzico di glamour (data la materia trattata), si viene guidati nella lettura da un impianto redazionale e grafico estremamente lineare. Vengono presentati sessantadue artisti, protagonisti delle tendenze che hanno fatto la storia dal dopoguerra a oggi. Si parte da tre antesignani Kazimir Malevic, Costantin Brancusi e Marcel Duchamp per poi presentare maestri come Alberto Giacometti, Francis Bacon e Jackson Pollock,  passando  attraverso i protagonisti della ricerca sperimentale degli anni Cinquanta-Sessanta come Piero Manzoni con la sua “merda d’artista”, César con le lamiere compresse, i sacchi di Alberto Burri, i  tagli di Lucio Fontana, le macchine cinetiche di Jean Tinguely, la sperimentazione utopica di Yves Klein, per giungere ai protagonisti della Pop Art come Andy Warhol, dell’Arte povera, del concettuale e del minimalismo sino al graffitismo e alla Young  British Art ed infine alle più recenti tendenze con artisti come Olafur Eliasson e Cai Guo-Quiang. L’autore, piuttosto che puntare su una lettura critica a tesi, privilegia un’impostazione storicistica prendendo in considerazione un artista protagonista emblematico di un periodo o di una tendenza. Si viene così a creare un percorso nella recente storia dell’arte scandito dai singoli protagonisti. A ciascun artista sono dedicate due pagine, suddivise secondo una gabbia grafica che si ripete costantemente per ogni artista considerato. Le schede presentano un’immagine di un’opera significativa, le note biografiche, alcune curiosità che ci permettono di definire maggiormente la personalità dell’artista e un breve testo critico che, in modo chiaro e approfondito, consente di conoscere il senso della produzione artistica e la sua collocazione nel più generale ambito storico. Più chiaro di così…

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Arte in TV. Forme di divulgazione

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Si può considerare l’arrivo in Italia della televisione negli anni Cinquanta, come un acceleratore del processo di trasformazione sociale dalla civiltà contadina a quella industriale. Con il fenomeno dell’immigrazione interna fu l’elemento che contribuì maggiormente a uniformare la vita degli italiani facendoli passare dai campi ad una società che scopriva per la prima volta la possibilità di dimenticare la fame e sognare il benessere. La classe dirigente dell’epoca capì, dopo un primo sbandamento, che lo strumento aveva potenzialità mai viste e che, oltre a creare occasioni di svago, poteva addirittura cambiare i costumi e i modi di pensare. Andava utilizzato ma soprattutto andava controllato. La televisione diviene così strumento  didattico e di divertimento ( moderato).

Dagli sceneggiati teatrali a Non è mai troppo tardi, da Lascia o raddoppia? a Carosello la televisione svolge la funzione di mass medium di acculturazione e di valvola di sfogo, sempre sotto l’occhio guardingo di funzionari che sapevano dirigere e nel caso censurare. Negli anni successivi la televisione si trasformerà, seguendo l’evoluzione sociale e determinandola essa stessa. In particolare nei confronti dell’arte la televisione negli anni del monopolio ha assunto posizioni diverse. Essendo l’emanazione di centri di potere istituzionale, partitico e mediale che storicamente hanno sempre tenuto in poco conto la cultura, la sua attenzione verso l’arte in generale ed in particolare quella di ricerca è stata limitata, con qualche sporadico maldestro tentativo di divulgarla. L’arte e la sua storia sono comunicate con un linguaggio aulico, pedissequamente imitatore della critica del tempo, in trasmissioni, fatte salve alcune eccezioni di pregio, destinate ad un pubblico ristretto. Sorte peggiore tocca all’arte di ricerca che è considerata piuttosto soggetto di quiz che di approfondimento. Tale situazione si protrae sino alla società del consumismo spettacolare che inizia negli anni Ottanta e si sviluppa con la prolificazione prima dei canali poi delle emittenti, sino a giungere alla televisione di oggi sempre più indirizzata ad un rapporto interattivo con il pubblico, ad una selezione tematica dei programmi, alla tendenza a creare zone di scambio con l’universo virtuale.

Riguardo all’arte le questioni aperte e i problemi teorici che si pongono si concentrano sia  su un utilizzo del mezzo che potremmo definire funzionale, sia sulla televisione  come medium in sè. La capacità divulgativa del mezzo televisivo negli ultimi anni da un lato si è ampliata e potenziata potendo usufruire di immagini sempre più definite e spettacolari, dall’altro ha fornito programmi sempre più dedicati e canali tematici che consentono approfondimenti e varietà di temi. Al contempo le trasmissioni sull’arte si sono via via liberate dagli approcci ingessati aprendosi ad una narrazione di matrice anglosassone. Tale apertura, dovuta alla diffusione anche in Italia di produzioni di canali culturali europei, ha ampliato le possibilità di divulgazione della storia dell’arte e ha favorito anche un approccio all’arte di ricerca, anche se vista ancora nel suo aspetto di fenomeno glamour o “scandaloso” o mischiato a altri generi di tendenza piuttosto che essere preso in considerazione come processo creativo. Un’altra questione che diverrà nei prossimi anni centrale sarà la ridefinizione del medium televisivo non più soltanto inteso come divulgatore verso soggetti passivi ma con elementi di interazione sempre più accentuati.

In questo quadro, nel nuovo spazio operativo che si viene a creare, viene da domandarsi quale potrà essere il ruolo dell’arte non più solo oggetto di divulgazione ma momento di creazione “televisiva”.

Il volume “ Arte in TV. Forme di divulgazione”, a cura di Aldo Grasso e Vincenzo Trione, approfondisce i temi trattati in un recente convegno universitario, tenutosi a Milano con contributi di vario segno. Una prima parte è dedicata al rapporto tra arte e televisione: consenziente, manipolatorio, contradditorio. Nella seconda vengono analizzati tre periodi storici. Aldo Grasso affronta le problematiche della divulgazione tra mediazione e mediatizzazione nei primi anni della RAI. Massimo Scaglioni si sofferma sull’arte nella tv commerciale degli anni Ottanta. Con Cecilia Penati viene affrontato il tema del cambiamento di sistema dovuto al fenomeno della digitalizzazione che porta, se non alla fine del mezzo televisivo (come molti pensavano),  ad un aumento dell’offerta e ad una vera e propria ridefinizione della natura del medium.  Nella terza parte troviamo i “critici d’arte in TV. Origine, ricerca e divulgazione di nuovi linguaggi di Tommaso Casini mentre Anna Luigia De Simone ci conduce sul periglio percorso di  “come si guarda un quadro in televisione” dal grande John Berger alle gesta di Federico Zeri, Vittorio Sgarbi, Flavio Caroli e Philippe Daverio, per citare i più noti. Nella quarta parte sono di scena non solo i critici ma anche gli artisti. Dopo il saggio di Massimiliano Panarai sull’evoluzione del critico a neoicona pop, Veronica Gaia di Orio approfondisce l’uso del documentario d’arte nella televisione italiana. Last but not least “Gli artisti e la televisione” il saggio di Rachele Ferrario che ha come sottotitolo una “relazione pericolosa”  dove si comprende perché la televisione abbia sempre tenuto a distanza gli artisti, e gli artisti, salvo alcuni ardimentosi, se ne siano tenuti alla larga. Il volume si chiude con un saggio di Cecilia Penati che cerca di tracciare una storia dei programmi sull’arte in Italia. Una storia complessa che il volume ben analizza, rivelandone aspetti storici ma anche suggerendo relazioni ancora tutte da scoprire.

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Lo sguardo dal di fuori. Dialogo dello psiconauta

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Quando uscì nel 1981 il saggio di Alberto Boatto suscitò – come ricorda Massimo Carboni nella prefazione – l’attenzione dei più valenti recensori tanto che il testo venne considerato un piccolo classico. Un classico che, pur  anomalo, ancor oggi si scopre attuale. Nel quale i riferimenti a personaggi e vicende pur narrando di sé, ci svelano terreni fertili ad una riflessione anche sui più recenti accadimenti, sociali e macropolitici. In sostanza su come sta andando il mondo. Così l’evento, la discesa sulla luna, l’allunaggio, visto dall’occhio globale e massificante della televisione accomuna la platea mediale nell’eccezionalità dell’impresa. Ma, a ben guardare, assume le connotazioni, pur nella nebbia catodica, tra le incertezze di Tito Stagno e Ruggero Orlando, di elemento unitario, carico di significati simbolici. Il poter vedere la terra da un altro luogo nella sua totalità come oggetto in sé determina non solo un rivoluzionario cambiamento di prospettiva ma ci induce anche a riadattare la nostra cosmologia simbolica. Ci provoca un “ecumenico spaesamento”. Spaesamento al quale già hanno contribuito le riflessioni moderniste d’avanguardia con il ready-made di Marcel Duchamp prima ancora delle scoperte scientifiche. Ed ora queste ultime realizzano, per le logiche di potere, un super ready-made planetario, come visualizzazione di oggetto da consumare.  Dallo “sguardo dal di fuori” la terra entra nello “stadio dello specchio”. Da questa nuova visione i ragionamenti dilagano: dalle anticipazioni degli artisti, a “su che cosa riflettono gli specchi”, alla logica della guerra derivata dal mutamento del punto di vista, alla collocazione nello spazio in Beckett e in Rilke, agli appunti di un giornale di bordo di un osservatore astronomico, all’atmosfera da dopo il diluvio filtrata dalla surrealtà di Max Ernst. Il racconto-saggio di Boatto, reso con una scrittura elegante e con una logica stringente, scevra da luoghi comuni, con appunto “ uno sguardo dal di fuori”, mentre sembra divagare in raffinate riflessioni culturali, cela un duro discorso sulle dinamiche del potere e sull’utilizzo delle risorse:” La Terra (il cosmo), ridotta a una ‘cosa’ che la tecnica trova collocata davanti a sé, è , in quanto tale, pronta a venire usata e manipolata. L’intera realtà viene ricondotta a riserva disponibile, a fondo utilizzabile e sfruttato di fatto”.  Completa il volume, edito da Castelvecchi, “Il dialogo dello psiconauta”.

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Da David a Saatchi. Trattato di sociologia dell’arte contemporanea

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Raimondo Strassoldo, dopo la docenza in sociologia urbana e rurale, dal 1994 insegna sociologia dell’arte all’università di Udine. Nel 1998 ha pubblicato, tra l’altro, il manuale Forma e funzione. Introduzione alla sociologia dell’arte. Ora dà alle stampe da Forum di Udine Da David a Saatchi, trattato di sociologia dell’arte contemporanea, un tomo di oltre 500 pagine che si pone come proseguimento di ampia portata del primo testo. L’autore prende in considerazione l’arte moderna e soprattutto contemporanea nelle sue caratteristiche e dinamiche di sistema: dai problemi di definizione ai fondamenti culturali, dal ruolo dello Stato e del mercato agli artisti. Ed ancora come la filosofia, la storia, la critica abbiano analizzato il fenomeno artistico. Dopo aver illustrato le varie tipologie d’arte da quella civile all’arte d’avanguardia e alla neoavanguardia, si giunge all’arte della postmodernità con le sue peculiarità rispetto all’arte delle avanguardie, e con un approfondimento sui rapporti con la cultura di massa, i mass media e le nuove tecnologie. Altri capitoli sono dedicati alla mercificazione, alla museificazione, ai collezionisti e al pubblico. Ma è nella quarta parte, dedicata alla critica dell’arte contemporanea, che l’autore chiarisce del tutto la sua posizione. “Tutto questo libro – scrive – nasce da una posizione, per usare un eufemismo, di forte perplessità nei riguardi di molti aspetti dell’arte contemporanea”. E ci avvisa che a questo punto “il registro cambia e diventa esplicitamente critico”. L’autore si sofferma su alcuni luoghi comuni (a suo dire) dell’arte contemporanea: dall’unità dell’arte alle sue funzioni educative, dall’arte come strumento di conoscenza alla creatività, al rapporto fra etica e arte. Un altro capitolo è contro i critici d’arte con una raccolta di pareri negativi che vanno dall’oscurità del linguaggio all’accusa di ipocrisia, paragonati pure a quei preti che continuano a celebrare la messa senza credere più in Dio. Strassoldo prende di mira anche il mito dell’artista: Picasso “una personalità assai sgradevole”, Duchamp “odia tutto ciò che è arte” e Warhol “il dandy al cubo”. Infine si riportano le tesi di studiosi del Novecento, storici, filosofi, critici che hanno assunto una posizione di contestazione nei confronti del sistema dell’arte e alle voci critiche dei sociologi che si sono occupati d’arte.

 La sociologia dell’arte non è in Italia un terreno particolarmente frequentato, mancano di fatto analisi e approfondimenti, mancano ricerche che utilizzino gli strumenti di indagine tipici della sociologia, dai sondaggi alle inchieste, all’elaborazione dei dati, mancano soprattutto ricerche che uniscano le competenze sociologiche e di storia dell’arte. Manca in sostanza una piattaforma di conoscenze dalla quale partire per poter giungere a un’analisi e una valutazione più veritiera e possibilmente più obbiettiva del sistema dell’arte.

Quindi ben venga un saggio fortemente critico che, con una scrittura chiara e accattivante, raccoglie un’ampia documentazione e bibliografia, con spunti sicuramente interessanti, riportando tesi e punti di vista dissonanti o di critica rispetto al coro dei sostenitori. Ma lo scopo di Strassoldo non è un testo al di sopra delle parti bensì di parte. “Questo non è neppure un trattato che voglia analizzare in maniera distaccata e neutrale il fenomeno artistico. E’ invece un libro a tesi, di parte.” E specifica che a differenza dei molti testi di denuncia sulla crisi dell’arte contemporanea o sulla sua inconsistenza, qui si appresta un’analisi sociologica o socio-storica. Non un pamphlet di denuncia quindi bensì un’analisi sistematica supportata da “prove empiriche”, confortate dalle prese di posizioni di altri critici e studiosi, a sostegno della tesi dell’autore.

Per dar elementi combustibili al fuoco della polemica, l’autore utilizza tutto quanto può servire: da Kant al gossip storico, passando da Baudrillard e Danto, ingenerando una sensazione di vaghezza al pur severo impianto su cui basa la sua tesi e facendoci sorgere un atroce sospetto: ma davvero tutto ciò che si trova nei musei d’arte contemporanea di tutto il mondo è da buttare?

Possiamo capire che Damien Hirst con le sue mucche squartate possa non piacere, così come molte ricerche d’arte contemporanea possano urtare la sensibilità di parte del pubblico, e sicuramente il sistema dell’arte ha le sue pecche (come tutti i sistemi) ma Strassoldo compie un taglio netto, mettendo in discussione tutta l’arte nata dagli impressionisti e dalle avanguardie, quella che ha prodotto l’evoluzione dell’arte sino ai giorni nostri.

Così facendo, corre il rischio di indebolire l’analisi sociologica, seppur di parte, riducendola a una presa di posizione a priori. Un conto però è presentare le tesi a favore e contro e poi dire da che parte si sta, un altro è dichiarare che stiamo da una parte e portare a supporto solo ciò che avvalora la nostra tesi.


Raimondo Strassoldo. Da David a Saatchi Trattato di sociologia dell’arte contemporanea. Forum Editrice Universitaria Udinese srl, Udine, dicembre 2010, pagg.537

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Fare memoria. Perché conserviamo il nostro patrimonio culturale

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“Fare memoria. Perché conserviamo il nostro patrimonio culturale” è il titolo del saggio di Henri-Pierre Jeudy pubblicato da Giunti. Titolo asettico a confronto di quello originale “La Machine patrimoniale”, definizione azzeccata e inquietante del  meccanismo che l’autore descrive nel saggio. Jeudy, sociologo, si occupa di patrimonio culturale ma è anche autore di opere sulla paura e sul privato nella vita quotidiana secondo quella che viene definita “antropologia dell’implicito”.  Ma che cos’è la Macchina patrimoniale? L’autore parte dall’assunto che nella nostra società la conservazione del patrimonio culturale ha raggiunto un tale livello di diffusione da impedirci un corretto rapporto con il passato e le sue vestigia. La conservazione del patrimonio culturale, che in qualche modo consente l’elaborazione del lutto, diviene un obbligo: “non siamo più liberi di dimenticare, l’oblio è considerato un crimine”.  Ed è l’organizzazione stessa del patrimonio culturale, che dalla fine del XX secolo si è sempre più ampliata, ad occupare sempre più quei margini di memoria che ancora si realizzavano in modo accidentale. Si crea e si diffonde così uno “spirito patrimoniale”  che impone anche la finalità della stessa creazione artistica che nasce per finire in un museo. Ma questo fenomeno cela un inganno: tutto ciò che si conserva e si trasmette diviene attualizzato. Viene meno la distinzione tra passato, presente, futuro in quanto tutto viene racchiuso e rappresentato in un simulacro simbolico, in una sorta di normalizzazione. Approfondendo la sua analisi l’autore prende in considerazione il concetto di “processo di riflessività” secondo il quale la società occidentale ha la necessità di creare uno “sdoppiamento spettacolare” con uno “raddoppiamento museografico del mondo” a confronto con le specificità della società nipponica in cui la parola “patrimonio” neppure esiste. Un caso particolare che attesta l’affermarsi della Macchina patrimoniale è la diffusione degli ecomusei. In questi casi la logica della conservazione svolge una funzione politica di rinsaldamento sociale ed i luoghi del lavoro e della produzione divengono simboli di coesione sociale, di valori comuni nei quali riconoscersi. Ma il processo di museificazione nella sua rappresentazione tende a porsi su un piano estetico, edulcorando o ignorando le memorie di fatiche e di soprusi che quei luoghi ospitavano. Il patrimonio industriale svolge quindi un funzione catartica arricchendo la visione della vita operaia di un elemento estetico che la rende, in fin dei conti, non così dura e comunque appartenente ad un mondo che non potrà più ritornare. In un museo giapponese dedicato al lavoro in miniera, la “memoria” di un tempo viene evocata con la fredda ripetitività di robot che imitano il lavoro dei minatori.

Sulle interpretazioni e sulla diffusione dell’impostazione patrimoniale un particolare ruolo lo hanno svolto gli etnologi che hanno guardato al patrimonio dei beni culturali non sotto l’aspetto della conservazione bensì come osservazione delle tradizioni e dei riti.

Tornati dai Paesi esotici, così come avevano compiuto ricerche sulle tribù indigene, gli etnologi cercano le origini della società contemporanea nel suo patrimonio culturale. Tale approccio che si diversifica da quello meramente conservatore, assume ben presto, soprattutto in Francia, un’importante valenza politica, soprattutto nell’indagine sui territori locali e sulle problematiche inerenti all’identità collettiva, da salvaguardare nel confronto con la dilagante globalizzazione.  Il paradosso si raggiungere quando gli oggetti stessi dell’osservazione etnologica si atteggiano secondo lo sguardo dell’etnologo, divenendo custodi di pratiche del passato ormai prive di un reale significato: una sorta di museografia dell’individuo dove il contadino di una determinata regione deve corrispondere a specifiche caratteristiche, caratteristiche risultate dal lavoro dell’etnologo. Ma la macchina patrimoniale non si ferma nemmeno di fronte a problematiche epocali come quella dei rifugiati, dei migranti, degli sciagurati del mondo in fuga da qualche cosa. Anch’essi debbono essere ricondotti ad etnie, a gruppi etnici che sono oggetto di attenzione per una loro sistemazione o ricollocazione mentre passano in secondo piano le cause che le hanno provocate. Si può essere d’accordo o meno con le riflessioni di Jeudy ma senza dubbio l’autore ha la capacità di riportare l’attenzione con originali intuizioni, su un meccanismo simbolico che sta alla base della società occidentale e sulla centralità del simbolo. Le sue osservazioni come i capitoli dedicati al ruolo dell’oggetto, alle dinamiche dell’attualizzazione e sulla percezione delle catastrofi ci fanno comprendere maggiormente il grande confronto in atto tra beni simboli e pratiche consumistiche e spettacolari che sono la caratteristica della nostra società.